giovedì 4 ottobre 2012

Il Mito Della Caverna

Conoscete il mito della caverna di Platone? In soldoni racconta di alcuni uomini prigionieri che si trovavano fin dalla nascita in una caverna legati ad un ceppo col viso rivolto alla parete e vedevano riflesse delle ombre. Fuori dalla caverna passavano degli uomini con dei vasi in testa e loro erano convinti che si trattasse di mostri. Che cosa accadrebbe se uno di loro fosse liberato dalle sue catene?

Ho riportato con qualche ritocco questo bellissimo mito per dare una vaga idea dell'immagine che mi si è delineata in mente mentre intervistavo un giovane uomo, Carlo Cuppini, che in cinque minuti di chiacchierata mi pare mi abbia insegnato molto più di quanto non abbiano fatto in cinquanta ore di lezione i professori all'università. Ho sempre pensato ciò che Carlo ha affermato, ma sentirselo dire con tale schiettezza è stata come una doccia fresca in una giornata d'estate. Carlo Cuppini è un poeta, autore di una raccolta intitolata: La militanza del fiore.



Come si evince anche dalla tua opera, a te piace sperimentare e rompere gli schemi. Qual è stata la prima catena che hai spezzato nella tua vita?

Forse quella del conformismo. Ricordo bene che fin da molto piccolo non potevo soffrivo tutto ciò che sembrava “andare per la maggiore”. Fin dall’asilo. Da adolescente diventai un ribelle – ovviamente, di quelli che non vanno “di moda”. Questo significava passare a volte per un originale, più spesso per un disadattato. Poi da adulto uno smette di farsi condizionare da quel che fanno o non fanno gli altri; oggi mi importa sopra a tutto della libertà: del pensare e del sentire, prima ancora che del fare. La libertà che è un fatto esclusivamente individuale, che però si esercita solo in mezzo alla collettività.

Hai scritto un libro di poesie che s’intitola Militanza del fiore. Perché la poesia e la poesia civile?

Credo che la poesia sia uno strumento di libertà, appunto, una sua sensibile concrezione, ancor prima che un modo di esprimersi. Poiesis in greco vuol dire “fare”. Così andrebbe intesa anche oggi: fare, fare se stessi, fare l’istante presente, fare una cosa concreta, attraverso un preciso atto di creazione. Un piccolo atto di creazione, va bene, non una genesi! Ma la creazione, anche nel gesto più piccolo, implica la responsabilità della libertà – anche libertà dalle proprie idee, dai propri pensieri coscienti. E questo è un fatto civile. La poesia buona è sempre civile. Anche se parla di passerotti. Nelle mie poesie compaiono spesso temi, parole legate all’attualità. Ma non è questo che la rende civile. È civile nella gestualità che mette in campo, una gestualità che agita il corpo della mente e lo spinge oltre i confini del controllo politico e sociale.

Tra le poesie pubblicate nel tuo libro, qual è quella che senti più vicina a te?

Temo di non sapere rispondere. Però ce n’è una che leggo sempre alle presentazioni, si chiama “Cose che accadono eccetera” ed è una specie di frullatore di parole, notizie, pubblicità, cose sentite, cose viste, telegiornali, facce, voci, falsità... tutto il circo mediatico, insomma, che diventa un disperato salto ad ostacoli per trovare un barlume di senso e di umanità. Una disperata corsa contro il tempo, tutta d’un fiato. Contro il nostro tempo.

Credi che nel mondo moderno, così caotico e sempre di corsa, ci sia ancora spazio per la poesia?

Il nostro mondo è la dittatura del linguaggio. Il 90% delle cose che conosciamo, sperimentiamo, discutiamo, condividiamo, interiorizziamo, passano attraverso i media, i dispositivi, il digitale, internet. In altre parole: sono filtrate dai linguaggi e non sono altro che linguaggio. Eppure il nostro è anche il mondo dell’analfabetismo: siamo invogliati e incitati a disimparare ogni tecnica che consenta di decodificare i linguaggi del mondo: ci deve essere sufficiente sapere usare gli oggetti, gli accessori. Soprattutto in Italia: i linguaggi artistici sembrano qualcosa di alieno, non esiste una cultura del contemporaneo, una familiarità con la ricerca, una passione per la sperimentazione. Ascoltare la musica di Bach o di Mozart, confrontandosi con quel tipo di linguaggio non scontato, è già un atto di resistenza. Scrivere una poesia, mettendo in discussione l’inerzia e il conservatorismo opaco delle parole, è una rivoluzione di cui in Italia oggi c’è bisogno.



mercoledì 3 ottobre 2012

Il mondo del Graphic Designer: due chiacchiere con Vanda Pelling

Mi sono trovata qualche tempo fa a rivolgermi ad uno studio grafico per la presentazione del mio libro. Un giorno mi sono incontrata dunque con la graphic designer che avevo scelto e mi è sbucata davanti Vanda Pelling. Ho provato da subito grande empatia con lei e credo che, dalle risposte che mi ha dato alla sua intervista, capirete perché...


Come è nato il pensiero di diventare graphic designer?

Da piccola dicevo sempre che da grande volevo fare la pittrice, crescendo però ho dovuto accettare il fatto di non avere grandi doti di disegno, quindi mi piace pensare che quella del graphic designer sia una versione “aggiornata” di quel sogno dell’infanzia. I miei studi sono abbastanza lontani dal mondo grafico, perché vengo dal campo umanistico, in particolare sto concludendo il percorso magistrale in Scienze dello Spettacolo, ma in qualche modo ho sempre coltivato una passione per l’arte visiva e ho sempre avuto una certa dote creativa, quindi quando un giorno mi sono trovata di fronte alla locandina dell’ILAS di Napoli, ho saputo all’istante che quel diploma sarebbe entrato nel mio curriculum.

Cosa bisogna fare per diventare grafico?

Fare degli “studi” adeguati, corsi, master, scuole di grafica è sicuramente la cosa migliore per crearsi una base tecnica sulla quale poi andare a costruire il proprio stile. Detto questo è anche vero il fatto che se si hanno delle buone idee e una certa manualità con i software di disegno ed elaborazione grafica, avere dei titoli diventa superfluo. Quello della grafica è il dominio dell’esperienza. Vale la regola che più fai e più e meglio sai fare. Chiedendo a chi ne sa di più, sempre con grande umiltà. La cosa importante che mi è sempre stata detta e che io condivido è l’importanza del crearsi un bagaglio visivo e il famoso “occhio”, inteso come modo di organizzare le cose visivamente. Bisogna sempre guardare, informarsi, studiare il lavoro degli altri, riempirsi gli occhi di arte, fotografie, design, qualsiasi cosa, e stare sempre in contatto con ambienti creativi, in modo da immagazzinare quante più tecniche e soluzioni possibili, essere sempre stimolato e crearsi così il bagaglio visivo da rielaborare e da cui attingere nel creare il proprio stile. Come diceva un certo Godard, la tecnica si apprende, le idee no. Per fare il grafico quindi, mi sento di dire e di dirmi che servono occhio e cervello.

Insieme a un tuo collega, stai avviando IGOstudio, uno studio grafico. Quali sono i lavori più divertenti che hai realizzato?

Una delle esperienze più divertenti è stata sicuramente quella del Cavacon2012, nell’ambito del quale abbiamo curato l’allestimento dello stand di un’artigiana creativa con la quale abbiamo anche creato in collaborazione una linea personalizzata di quaderni e agende. E’ stato divertente pensare all’allestimento dello stand, ai manifesti, ai volantini, e cercare soluzioni originali per coinvolgere i visitatori e attirarli allo stand; oltre che i giorni stessi della fiera nella quale abbiamo anche “animato” la parte social con fotografie e caccia al tesoro agguerritissima, sono stati belli anche i frenetici giorni della preparazione e delle riunioni. Poi in generale, mi diverte molto di più progettare qualcosa che verrà stampata piuttosto che componenti web che rimangono nel dominio digitale. Pensare alla forma che avranno, alla componente tattile, mette in moto tutta un’altra serie di scelte creative che rendono bello e vario questo lavoro.

IGOstudio è una realtà molto giovane. Quali sono le difficoltà cui deve far fronte una Start Up come la vostra?

Dando per assodate le difficoltà economiche, che sopratutto nel momento generale che stiamo vivendo, si fanno più pressanti, relativamente all’apertura e ai costi e al mantenimento di un’attività regolarmente registrata, la cosa contro la quale mi ritrovo sempre più spesso a scontrarmi è la mentalità sbagliata, ahimè, particolarmente nel nostro sud. I clienti, le persone in generale, non danno il giusto valore all’atto creativo, sminuendolo continuamente con lotte al ribasso. La creatività, il lavoro intellettuale impiegato per una progettazione grafica è sempre poco considerato rispetto ad un lavoro che invece è “fisicamente” verificabile, come un qualsiasi produttore di oggetti materiali. Non è sempre vero, per fortuna, ma spesso ci si ritrova a fare dei lavoro in un ambiente ostile o comunque poco stimolante, dove il creativo non è valorizzato. Filippica a parte, ritornando alle difficoltà economiche, spesso è anche difficile riuscire a rientrare in iniziative o finanziamenti quali bandi o prestiti d’onore, che finiscono per essere degli specchietti per le allodole. Comunque non ci abbattiamo, anche perché crediamo nella possibilità del cambiamento e sopratutto nelle tante eccellenze del sud che devono solo trovare la giusta strada per uscire allo scoperto. Ad ogni modo io credo nelle mie forze e sopratutto su quelle faccio affidamento.

Il vostro mantra per i momenti difficili?

In effetti non ne abbiamo ancora coniato uno ma mi sento di dire little by little e dividi et impera, ovvero una cosa per volta e divisione dei compiti.

Il vostro mantra per i momenti belli?

Tutti al giapponese per festeggiare!